La distinzione tra azioni volontarie e azioni involontarie è già ben presente ai più antichi autori greci; tuttavia, tale consapevolezza non incide in alcun modo sui criteri di punibilità di un individuo, soggetto comunque a pena senza alcuna considerazione per la sua responsabilità e per l'elemento soggettivo del reato.
Soltanto verso la fine del VII secolo a.C., ad Atene, Draconte stabilì che, in relazione all'omicidio almeno, le pene dovessero essere differenziate sulla base dell'atteggiamento mentale dell'agente; in particolare, egli distinse tra omicidio cosiddetto "volontario" (rectius: ek pronoias, "premeditato"), e omicidio cosiddetto "involontario" (rectius: mè ek pronoias, "non premeditato"; forse era da questo distinto il phonos akousios, identificabile secondo parte della dottrina con l'omicidio colposo).
Nella seconda metà del V secolo a.C., come chiaramente attestano alcuni significativi passi dei poeti tragici, della logografia giudiziaria e dell'oratoria - alcuni dei quali in evidente dialogo gli uni con gli altri -, si accentua il dibattito relativo alla responsabilità e alla punibilità di un individuo: si afferma infatti il principio che questi possa essere punito soltanto se la sua azione risulti volontaria. Si procede, pertanto, con il definire le circostanze in cui il soggetto agisca volontariamente (hekon) e quelle in cui al contrario egli agisca involontariamente (akon).
La presente ricerca si propone di individuare, tramite l'analisi delle fonti disponibili e del lessico specifico da esse impiegato, quali fossero, nel V secolo, i criteri in base ai quali l'azione veniva giudicata volontaria e quali circostanze, al contrario, escludessero la volontarietà e di conseguenza la responsabilità individuale.