La vita come danno? Rapporti tra medical malpractice, self-determination e diritto alla vita.
Progetto Il diritto alla vita rappresenta il più fondamentale e il più complesso dei diritti umani su cui si fonda ogni società democratica e, tuttavia, è -almeno nella prassi- il meno ¿universale¿ dei diritti: riconosciuto in numerose carte internazionali e nelle costituzioni moderne, tuttavia, nei vari paesi trova diversi significati (soprattutto in relazione all¿individuazione del momento iniziale e finale della stessa) e, di conseguenza, diversi gradi di tutela.
E¿ proprio alla luce di tali preliminari considerazioni, ma senza la pretesa di trattare tutte le complesse problematiche connesse al diritto alla vita, che si ritiene di indagare ed approfondire uno specifico aspetto di tale diritto e cioè la compatibilità tra il risarcimento del danno accordato nei casi di wrongful birth e wrongful conception e la protezione dello stesso.
In particolare, infatti, le azioni di wrongful birth e wrongful conception sono azioni giudiziarie volte al risarcimento del danno a seguito di un fallito intervento abortivo o di un fallito intervento di sterilizzazione: l¿errore medico in simili casi risulta evidente e il conseguente risarcimento sembra a prima vista legittimo e non problematico.
Tuttavia, ad un esame più attento emerge tutta la problematicità della fattispecie. Che cosa costituisce danno in simili casi? In che cosa consiste l¿impegno contrattuale che sta alla base del rapporto tra medico e paziente? Chi nei fatti subisce il danno? Ed ancora, è legittimo prevedere un risarcimento che si spinge al di là dell¿errore medico in sé considerato e tange, di fatto, la nuova vita che è conseguenza dell¿errore medico? Ed infine, è compatibile la tutela risarcitoria con il diritto alla vita e con la dignità umana? Il diritto alla autodeterminazione può mai prevalere sul diritto alla vita?
Questi gli interrogativi che sorgono dallo studio delle sentenze in materia di wrongful birth e wrongful conception: la giurisprudenza inglese (con i casi Mc Farlane, Parkinson e Rees) costituisce lo spunto da cui partire per cercare di dare una risposta a tali interrogativi.
I giudici inglesi, infatti, se da un lato non cessano mai di riconoscere l¿importanza del diritto alla vita e della dignità di una nuova vita umana (è infatti noto che tale giurisprudenza si riferisce alla vita del neonato ¿sia pur non desiderato- con il termine blessing) contraddicono se stessi accordando poi un risarcimento elevato (calcolato in base ai costi per il mantenimento del figlio non voluto) nei soli casi in cui il neo nato bambino sia affetto da handicap.
Interessante pare, dunque, partendo dalle appena svolte considerazioni, analizzare come la giurisprudenza italiana e straniera (USA, Australia, Germania, UK, Francia) ha ragionato sul punto e come ha tentato di conciliare il riconoscimento di un diritto alla vita e alla dignità umana con il diritto soggettivo a vedere risarcito il danno subito.